Alle 6.30 sono con i miei amici nel parcheggio della festa. Siamo usciti per bere qualcosa, poi torniamo dentro. Guardo il cielo e vedo una delle albe più belle che abbia mai visto… poi improvvisamente compaiono delle luci nel cielo, all’inizio non capisco cosa siano…
fino a che capisco. Decine di missili e intercettazioni sopra le nostre teste. Ci rendiamo conto che la festa è finita e che ci sarà il caos per uscire. Un’esperienza stressante, eppure nella realtà delirante in cui viviamo, si tratta ancora di un’esperienza “comprensibile” (non penso che qualcuno avesse intuito veramente in che situazione ci trovavamo).
Mettiamo via velocemente le nostre cose e il nostro gruppo si divide. Io sono in macchina con un’amica che guida. Ho un brutto presentimento e voglio semplicemente andarmene di lì. Guardo le guardie di sicurezza e capisco che non hanno idea di cosa fare. Uno di loro ci suggerisce di dirigerci verso Beit Kama, quindi è quello l’indirizzo che mettiamo su Waze (app che fa da navigatore).
“In mezzo ai campi aperti cerchiamo di orientarci, ogni volta che sentiamo degli spari corriamo nella direzione opposta. “
Usciamo dal parcheggio affollato e giriamo a destra. Procediamo per 30 secondi, fino a quando vediamo una macchina perforata da proiettili che si dirige nella direzione opposta e una folla di gente che corre verso i rifugi che si trovano sul lato della strada.
Fermiamo la macchina e ci mettiamo al riparo anche noi in uno di questi. Dentro ci sono circa 40-50 persone ammassate, la gente è spaventata. Penso che in quel bunker successivamente abbiano lanciato una granata e assassinato chiunque vi si trovasse ancora, e sarebbe stato anche il nostro destino se fossimo rimasti lì. Dopo un paio di minuti dico alla mia amica che non ho nessuna intenzione di rimanere lì, quindi prendo le chiavi della macchina e la raggiungiamo di corsa. Fuori risuonano gli spari.
Accendo la macchina, faccio inversione e inizio a guidare nella direzione opposta per circa 500 metri fino a quando la strada è bloccata da tutte le altre macchine che stanno cercando di uscire. Vediamo altre auto perforate da proiettili e gente sporca di sangue che gesticola di non andare a destra. Scendiamo dalla macchina, la lasciamo lì e iniziamo a correre. Inizialmente sulla strada e poi nei campi. Intorno a noi ancora spari e persone che non sanno cosa fare. Non sappiamo in che direzione stiamo correndo, semplicemente vediamo altri correre senza che sparino su di loro e li seguiamo.
“Sappiamo che ci sono dei terroristi nel kibbutz Be’eri e in altri posti della zona, quindi ci muoviamo principalmente in base all’istinto.”
In mezzo ai campi aperti cerchiamo di orientarci, ogni volta che sentiamo degli spari corriamo nella direzione opposta. Siamo circa 300-400 persone – proprio come l’esodo dall’Egitto. Corriamo e camminiamo per circa 20 chilometri, fino al moshav Patish, con esplosioni sopra le nostre teste ed i terroristi dietro di noi.
Ma in una situazione del genere non ti preoccupi neanche dei missili, perché sei troppo impegnato a guardarti intorno per assicurarti che i terroristi non ti saltino addosso. Mentre scappiamo per salvarci la vita, riceviamo moltissime chiamate da amici e parenti che vogliono sapere come stiamo, cercare di capire dove ci troviamo e consigliarci sul da farsi. A un certo punto metto il telefono in silenzioso, perché mi dico che è meglio sapere il meno possibile sulla situazione nel Paese e che gli amici e i parenti sappiano il meno possibile anche su di noi almeno fino a quando non saremo al sicuro. Mi rendo conto che siamo soli e il mio unico pensiero è che lì in quel momento non c’è più un Paese e che ci troviamo in un Armaghedon.
Chi può venire a salvarci adesso? Sappiamo che ci sono dei terroristi nel kibbutz Be’eri e in altri posti della zona, quindi ci muoviamo principalmente in base all’istinto. La gente è in preda al panico e piena di adrenalina, tutti si stressano a vicenda, cerchiamo di capire se sia meglio restare nascosti o continuare a camminare. Ogni rumore ci mette in allerta e ci fa entrare in paranoia. Ogni frammento di informazione è cruciale per decidere dove e se continuare a camminare.
Camminiamo finché raggiungiamo una zona in cui si trovano delle serre, dove ci hanno consigliato di nasconderci. Alcuni rimangono lì, la maggior parte di noi continua a camminare. Dopo circa 3 ore vediamo delle macchine israeliane, probabilmente di abitanti di Patish che sono venuti a dirci di continuare a camminare in quella direzione e che lì è sicuro. Arriviamo dopo 4 ore, ci accolgono e distribuiscono acqua e cibo, proprio come ai rifugiati di guerra. Trascorriamo un’ora, un’ora e mezza di tensione pura a Patish, confusi e scioccati mentre iniziamo a capire quello che è successo, dopodiche’ saliamo su un autobus che ci porta a Beer Sheva e da lì il padre (un angelo) di una ragazza della festa ci porta dritto fino a casa.
Durante il tragitto continuo a pensare agli amici che non mi hanno ancora contattato, a quello che ci è successo, e alle storie surreali di altre persone.
Inizi a renderti conto che questo è un evento di proporzioni storiche, che tu ne sei al centro, e che il Paese intero sta parlando solo di quello mentre tu cerchi solo di capire come uscirne vivo.
Soltanto il giorno dopo mi accorgo di essermi slogato la caviglia e di avere altre ferite sulle gambe e tagli su un braccio… ma tutto questo è nulla in confronto ai ragazzi che sono stati letteralmente massacrati lì, o ancor peggio, rapiti. Molti di loro sono miei amici o amici di amici.
La mia anima non sa se affrontare prima quello che ha appena vissuto o quello che hanno vissuto i miei amici della festa che non sono tornati, le famiglie che sono state massacrate e gli innocenti che sono stati rapiti e D-o solo sa che gli sta succedendo lì.
Per fortuna ne siamo usciti vivi per miracolo e con coraggio, ma purtroppo molti innocenti sono stati uccisi a sangue freddo e nel modo più terribile. Io sto ancora cercando di metabolizzare quello che è successo e cerco di riprendermi.
Sagi G.
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